Attraverso la codificazione della nozione di “arte impersonale”, Mari Del Buono non solo sintetizza nei sui lavori un secolo di riflessioni sul rapporto che lega la psiche all’azione pittorica, percettiva e sensoriale, ma ne estende ulteriormente le finalità. In questo orizzonte analitico, il primato del colore assume una valenza di mistica “spirituale”, per usare le parole di Vasilij Kandisnkij, ovvero si fa portatore della creazione di nuove realtà che assumo senso e veicolano significati solo nel momento in cui è il fruitore a stabilire con l’opera un rapporto empatico, ovvero non mediato dalla diretta corrispondenza fra ciò che osserva e la realtà fenomenica, in primis quella naturale.
Nella negazione della figurazione e dell’immagine, tradizionalmente intese, ben si esplicita tale meccanismo. In quest’ottica, la ricerca di Mari Del Buono palesa la sua caratura internazionale, specie per quanto riguarda alcune interessanti affinità con i capisaldi teorici che animarono l’Espressionismo Astratto della Scuola di New York, che l’artista, però, rivisita in maniera del tutto inedita e innovativa. In effetti, il ricorso alla cromia, utilizzata in maniera solo in apparenza casuale, diviene il mezzo per oltrepassare il nesso causa-effetto che sottende all’atto creativo.
In altri termini, se per secoli l’artista ha agito in qualità di artifex, ovvero di creatore di realtà veicolate secondo precisi meccanismi di committenza, iconografia e iconologia, con l’azzeramento della figurazione, esploso compiutamente con le Neo-avanguardie di secondo Novecento, l’attenzione si è spostata dall’oggetto al soggetto. Ma ciò che in molti autori resta fatto implicito del processo artistico, in Mari Del Buono viene esplicitamente dichiarato. Agire in qualità di artista impersonale significa sottrarsi a qualunque tentativo, anche inconsapevole, di infondere nell’opera il proprio portato esperienziale o di vissuto, nonché qualsivoglia riferimento al passato, per proiettarsi nella dimensione del “senza tempo”, dell’immediato, che si svela solo nel momento in cui ci si confronta e ci si immerge in maniera totale, completa, individuale.
Ciò che per l’artista è impersonale risulta, quindi, estremamente personale per il singolo fruitore, che si approccerà al dipinto e cercherà di ritrovarvici il suo esclusivo significato: sé stesso, il suo stato d’animo, la sua immagine interiore riflessa. In questo sottile e ricercato slittamento semantico si esplicita il senso più profondo della ricerca di Mari Del Buono, che, come anticipato, si caratterizza per l’elevata carica di empatia. Proprio questo aspetto consente di cogliere in azione le convergenze fra arte e neuroscienze, in specifico i meccanismi del sistema nervoso che definiscono l’azione dei neuroni specchio.
Concetti come quelli di “flusso ottico” o di “percezione non mediata”, risultano assolutamente calzanti se intesi in relazione alla ricerca, pionieristica, di Mari Del Buono. Le forme o, meglio, non-forme, che l’artista effigia sulla tela col tramite di una amplissima gamma cromatica, stimolano infatti nell’osservatore una risposta selettiva che, in quanto già codificata nel suo assetto ottico, gli consentirà di evocare alla mente, sentire e percepire sensazioni ed emozioni che esistono nella misura in cui si riferiscono alla sua irripetibile unicità d’individuo, dotato di strutture rappresentazionali e sensoriali non replicabili. Un obiettivo che si concretizza proprio con il tramite del meccanismo mimetico attuato dai neuroni specchio e che trova nel carattere impersonale dell’arte di Mari Del Buono, le premesse del successivo, e non mediato, sviluppo personale.